21 gen 2015

La solitudine dei numeri uno

I film hollywoodiani sui grandi scienziati sono - necessariamente - delle forzature, tanto alla carriera quanto alla vita dei personaggi rappresentati.
A Beautiful Mind ne era già stata una dimostrazione, e The Imitation Game ha confermato la regola.

Può essere considerato un uso sapiente dello stereotipo: il quale non è necessariamente un male. Gli stereotipi assolvono, infatti, anche una funzione positiva, rappresentando un’utile sintesi di
conoscenze condivise: il buon selvaggio e il cattivo selvaggio sono, del resto, entrambi stereotipi.
Pensandoci bene, non c’è niente di intrinsecamente sbagliato nel generalizzare: la scienza stessa è costruita su astrazioni dal particolare al generale. 

La rappresentazione dello scienziato come genio solitario è, però, un'esagerazione che rischia - proprio tramite il grande schermo - di compromettere la comprensione pubblica dei meccanismi della scienza. E, di conseguenza, di attribuire alla ricerca un ruolo politico ben più banale di quello che dovrebbe effettivamente ricoprire (vedi il caso Stamina, o la vicenda del terremoto in Abruzzo).

Un esempio paradigmatico di tutto ciò è Isaac Newton. Aveva una passione pura e disinteressata per la comprensione del mondo, ma non lavorava affatto per il bene dell'umanità. Durante la sua vita ebbe molta fama e riconoscenza, ma nessuno con cui condividere le sue gioie. Convincerlo a socializzare sarebbe probabilmente stato più difficile di obbligare un gatto a fare il bagno.


Nato il 25 dicembre 1642 (come un regalo di Natale imprevisto), lo scienziato inglese era odiato dai compagni di scuola e persino dalla servitù familiare. Ma, una volta da solo, dava il meglio di sé: scettico su tutta la produzione di Aristotele, che all'epoca rappresentava il cuore del curriculum universitario, iniziò il suo lungo viaggio verso un nuovo modo di pensare nel 1664. Leggeva Keplero, Galileo e Descartes.


Tuttavia, dimentichiamoci la storia della mela.
La legge di gravitazione universale non è stata il frutto di un lampo di genio, o un'epifania. Si è trattato di un intero corpo di lavoro che ha fatto da base a una nuova tradizione scientifica. Non è con un colpo alla testa che il ricercatore formula le sue teorie, ma attraverso anni di fallimenti e successi, vagliando attentamente le ipotesi a sua disposizione.

Ma non basta. Un'altra causa dell'isolamento di Newton - per una media di 100 ore di lavoro a settimana - stava nei suoi due principali campi di interesse: l'analisi matematica della Bibbia e l'alchimia, che teneva adeguatamente nascoste all'opinione pubblica. Quindi, nel 1684, questo  ex bambino prodigio dalla dedizione maniacale aveva prodotto una pila enorme di note disorganizzate, una serie di saggi sulla religione e sui metalli più astrusi, e una teoria sul moto ancora confusa e incompleta.


La solitudine, pur gratificandolo a livello personale, aveva fino a quel momento penalizzato il sapere collettivo. Fu solo l'incontro con un altro eminente personaggio, l'astronomo Edmund Halley, che portò Newton alla pubblicazione del libro - i Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (o, più semplicemente, Principia) - che avrebbe dato una nuova forma al pensiero umano.

Lungi dall'essere l'opera di un singolo, il progresso teorico e pratico si dimostra - ancora una volta - il risultato del lavoro della cosiddetta "comunità scientifica". Ricordatelo, la prossima volta che andate al cinema.

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